venerdì 1 febbraio 2013

Riguardando la mia via 3

Ogni volta che ripenso alla mia via, nella mente si compone un quadro preciso: per prime i ricordi tracciano le linee delle abitazioni, poi i bordi delle auto parcheggiate, in ultimo il brulichio delle persone e il disegno si anima e colora.

Abitavamo quasi alla fine della strada, verso il giardino pubblico e la giornata era concentrata tra il gruppetto delle case immediatamente vicine. Spostandosi in direzione della piazza, si diluivano per me le occasioni di passaggio.
Più tardi l'avrei percorsa ogni giorno per commissioni, fughe e passeggiate di continuo senza pensarci tanto sopra.

Mi impressiona ancora il numero di persone con cui quotidianamente avevo a che fare: tra il forno e gli ingressi di case e palazzi, i giardini e il marciapiede.
E impressionante era che tutti fossero collegati tra loro a doppi o tripli fili con parentele di sangue, matrimoni, tradimenti, truffe e complotti.

Ero troppo piccola per capire bene quanto fitto fosse il tessuto intricato su cui tutti camminavamo, non ho ricordi a riguardo, solo considerazioni del poi.
Le donne parlavano tra loro di tutto questo, quando si riunivano nei pomeriggi in cui si facevano i tortellini.

Il forno dietro la bottega era una grande stanza dove per criterio di funzionalità si trovavano disposti con ordine curiosi macchinari, lungo il lato della porta verso il negozio, sul lato sinistro, un paio al centro.
Non li ho visti molte volte in azione perché venivano accesi soprattutto di notte dal nonno e dai suoi operai e forse per questo mi ha sempre stupito come infilandoci pezzi di pasta lievitata uscissero inaspettatamente coppiette e barillini, rosette e altre immagini di cui non ricordo i nomi, pane dalla forma troppo articolata perché il suo plasmarsi non fosse un affascinante mistero.
A destra c'era la grande spianatoia di marmo grigio, in fondo il forno vero e proprio e dietro ancora un altro paio di ambienti separati da tende, dove si friggevano nello strutto i bomboloni o si preparavano impasti dolci.

In quei giorni, dopo le quattro del pomeriggio mia nonna e la Rina si mettevano a turno a tirare la sfoglia sul lato destro della spianatoia, la passavano a sinistra dove l'altra tagliava tutta la superficie gialla e porosa in quadratini e noi come mosche arrivavamo ad affaccendarci sopra.
Il gesto atletico di lavorare quella quantità di pasta non va sottovalutato: era un procedimento faticoso, l'impasto era molto, pesante e i gesti per tirarlo ampi e impegnativi, con tutto un loro ritmo; mi è sempre piaciuto tanto, stare a guardare.

"Andiamo a lavarci le mani" mi diceva qualcuno, poi con le dita ancora umidicce, mettevo in ogni quadratino un po' di ripieno, o già farciti li piegavo per farne piccoli triangoli.
I triangoli poi si passavano alla nonna che con un gioco di dita che non so riprodurre allo stesso modo, dava loro la forma finale.
La bisnonna faceva da sé, china su un tavolo a parte per non mescolarsi troppo alle due sfogline, alleate e amiche da sempre, così io passavo un po' di tempo accanto a loro e un po' di tempo accanto a lei, trotterellando da una parte all'altra per rifornirla costantemente di tortellini da chiudere.
Mia madre stava in bottega, la zia maggiore quando il lavoro di maestra lo permetteva dava una mano dove serviva, la zia più giovane frequentava il liceo in una città vicina e lavoricchiava in piazza presso un negozio d'abbigliamento. Era una delle belle del paese - secondo tanti la più bella - e spesso compariva anche lei, perché secondo mia nonna, che si avessero cose da  fare o meno, una parte di tempo comunque la si doveva tributare alla casa.

Così, attorno a quel gruppetto, con vassoi e mattarelli, passavano insieme tutte le verità del mondo.

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