venerdì 5 luglio 2013

Ieri che sei tornato

Due mesi fa mi avevi chiesto scusa.
Mi avevi ascoltata anche se un po' di fretta.
Avevi chiesto di me.
Due mesi fa sei andato via che sembrava non ti importasse granché e quanto ti ho detto "Non vorrei che adesso buttassimo via tutto" hai risposto "Sì", senza che io avessi idea di cosa volesse dire.

Se voleva dire "Ripasserò e ti racconterò senza che tu debba chiedere, ci berremo un bicchiere seduti su un cornicione sporco ma bello, ti toccherò i capelli e dirò che mi piace quando ridi così vedrò di farti ridere il più possibile e torneremo a casa contenti, almeno questa volta, di essere stati così dall'inizio alla fine", hai fatto bene a dire solo "Sì"; perché tanto non ci avrei mai creduto.

Come sempre, ti avevo sottovalutato, M.

mercoledì 3 luglio 2013

Troppi perché

Perché quando qualcuno si avvicina è sempre difficile.
L'equilibrio sono gli amici e le loro birre, annoiati dai discorsi da donna e tornare di corsa a parlare di palestra, prendere in giro S., decidere se quella tipa è figa o no e A. con chi sta uscendo adesso?, G. che fa ridere come nessun altro, R. che ti ricorda il bello delle persone nuove e facili, ascoltare chi suona in giro quando è sera e tutti stanno bene, tornare a casa.
Le cose belle sono le compagne di squadra e le amiche, i messaggi a scrivere robaccia e tutte le volte che sbagli destinatario fai figuracce, le sere con un bicchiere per strada che sia vino o che sia acqua, "Lo senti ancora M.?" e sì, lo senti il giusto per lasciarlo andare senza che se ne accorga o senza che te ne accorga tu.
La parte facile è non pensare al tempo e credere di poter salirci sopra come fosse una giostra a metà giro: dai, che il coraggio di saltare devi trovarlo.
E il campo da gioco, il tramonto lì è bello come è bello solo nelle cartoline, ridatemi il fango che mi manca già.

Chi passa di sfuggita, chi arriva per restare a dividere una torta o un pomeriggio, una notte in piazza o una gara di bestemmie, una chiaccherata che non ti aspettavi, un racconto di cui essere grati è sempre qualcuno che fa contenti.

Chi arriva come una stagione nuova a riaprire vecchi armadi, chi ti ricorda per un momento che ci sono altre cose, è difficile.

Ci sono un po' di baci lungo una strada, quattro chiacchere che sembrano un prodigio ma è perché ci credi tu, una faccia nuova vicino alla tua che sul serio: ti sembra di conoscerla da sempre e come sempre la guardi meglio e capisci che siete solo sconosciuti.
Ci sono confidenze esagerate che era presto per fare, momenti di slancio e che bello avere la voglia diversa di vedere qualcuno!, messaggi che cancelli tutti perché sì, perché vanno dimenticati e piccoli ricordi belli ai quali non pensare più.
Getta via tutto: è solo un gelato venuto male, non sei fatta per questo, non sei capace di tranquillità.
Rompi quello che c'è, rompi tutto quello su cui puoi mettere le mani poi guarda i cocci e pensa che è andata, purtroppo è successo e non si può fare altro, se non ha retto la caduta non andava bene e basta, buttare via.
Fa così: arrabbiati per un motivo sciocco e poi non dovrai ammettere che faceva solo paura, che potresti non reggere, che è inutile perdersi ancora in qualcuno o solo vagamente rischiare, che poi se ne va; sfianca l'avversario come sai fare tu e vedrai che non rimarrà, mostra il peggio e aggiungi parole a caso.
Vedrai che funziona.

Cuciti una condanna su misura: l'avrai scelta del tuo colore preferito e potrai indossarla sempre, è materiale tossico di prima qualità e durerà a lungo.
Lascia avvicinare solo le zanzare.
Poi dormi, prega un sonno denso e senza sogni, archivia quello che non riesci a cancellare e torna dai tuoi amici, torna a giocare.






mercoledì 26 giugno 2013

Dove sono?

Dove sei finita?
Non lo so.
È una strada che non riconosco, passano auto e persone mai viste prima, i panorami non sono miei e sono freddi, gli alberi di plastica, l'aria di sacchetti che si appiccicano sulla faccia.

Dove sei?

Non lo so ma vorrei tanto tornare.
Ogni tanto il vento riporta un odore, quello di primavere che conoscevo, di nevicate dove ci siamo trovati, di notti passate ad aspettare cose che sapevo sarebbero tornate. 
Chissà se loro si ricordano di me.

Dove sei?

Non lo so e non ce la faccio a rimanere qui e non posso fare altro.
I respiri pungono, le parole sopiscono e nessuno qui conosce il mio nome.
Non c'è nessuno, qui sono tutti nessuno per me.
Voglio andare via e per quanto lo voglia le mie gambe non bastano, il mio fiato si ferma e le braccia subiscono strette che frenano il passo.

Dove vuoi andare?

Indietro, l'unico posto in cui non si può mai tornare.

venerdì 10 maggio 2013

Un giorno

Un giorno siederemo sul bordo, io avrò con me due bicchieri e una bottiglia, perché se no a che servono le borse grandi, tu avrai l'espressione di sempre e parlerai a macchinetta perché all'inizio sei sempre teso, parlerai a fiume e la pozza d'acqua diventerà un lago di tutto, parlerai per farmi ridere, annoiarmi, stare così.

Non avrò voglia di piangere ma so che se lo facessi, tu mi abbracceresti e basta questo e già non mi va.

Le larve nelle pozze mi ricorderanno momenti così lontani che gli occhi si annebbieranno per lo sforzo e lo stomaco si annoderà dalla fatica, tu dirai qualcosa di assolutamente fuori luogo e io saró di nuovo felice.

Saranno vicini altri ricordi: nella mia bicicletta appoggiata a terra, nella giostra poco distante, nei tuoi racconti che avrò già sentito mille volte, nei miei vestiti.
Li guarderemo un attimo, tu nemmeno li vedrai davvero, poi cambieremo argomento, perché con te si non si torna indietro.

Poi finiremo la bottiglia e ce ne saranno altre e altre sere, altre parole, altre ore da dividere a fette tra me e te, altri ricordi per cui tu mi presterai gli occhi così non saró triste e vedrò come vedi tu: con più distacco, poi riprenderò i miei perché nei tuoi c'è troppo dolore.
Quel giorno vorrei che tu avessi iniziato a lasciare che un po' lo possa portare io, per te.




sabato 13 aprile 2013

Ricordi

Un paio di anni fa un ragazzo che mi piaceva molto, in risposta a non so più quale mia domanda scrisse: "Il tardo pomeriggio".
Non ricordo altro di quella conversazione via cellulare, perché i ricordi con quell'etichetta erano già troppi.

Quando ero bambina il tardo pomeriggio era odore di farina e lievito, del cotone che copriva il divano e di pelle sudata e stanca.
Altre volte era la salsedine nell'appartamento al mare della sorella di mia nonna e della doccia per togliere la sabbia che dava fastidio ai grandi portassimo in giro, altre ancora delle montagne di miei libri, casomai i fiori dei giardini interni che a primavera il crepuscolo profumava di più ma soprattutto era il ronzio del grande televisore sul mobile ad angolo scuro in salotto, la tapparella verde quasi abbassata, lasciarsi filtrare sulla faccia le barrette di luce arancione del sole quando diventava rosso aranciato.

Stavo dietro alla finestra facendomi colpire gli occhi da quella luce che ho sempre pensato incredibile, sperando che tutto cambiasse, che il dolore potesse passare ma senza la minima percezione del fatto che sì: sarebbe accaduto.
Il tempo sarebbe passato e io lo speravo senza sapere che sarebbe successo davvero, senza immaginare quanto sarebbe stato brutto e triste e bello ma più che altro difficile.

Nei miei ricordi ho quasi sempre la stessa età: non sono mai stata capace di usare gli anni né in teoria né in pratica  così mia nonna ne ha avuti cinquantatré fino almeno ai sessanta, mia madre per quindici ne ha avuti trentaquattro e le mie zie ancora oggi sono convinta che siano sulla ventina e non al doppio.
Quello che guardavo era un copione riproposto in un tempo immobile.
Eravamo sempre noi, eravamo sempre lì, per anni tutto quello che di importante avevo conosciuto era sempre rimasto uguale e una bambina che ha sempre sei anni non fa caso alle rughe, non capisce la vecchiaia ma conosce quello che tocca e quello che toccavo era lo stesso da che avevo memoria.

Il primo passo per capire che il tempo esisteva furono i racconti delle mie nonne, di quando erano giovani o bambine.

La mia bisnonna nacque nel 1915 e perse i genitori e qualche fratello per via della spagnola, a otto anni iniziò a lavorare in fabbrica e avrebbe voluto studiare matematica e geografia e viveva insieme alla sua di nonna, che faceva il caffé con qualcosa che caffè non era e rammendava coperte e cuciva vestiti, tutto perché di soldi non ce n'erano.

Mia nonna aveva un padre commerciante, tre sorelle e un fratello, qualche scimmia in casa e un grande amore.

D'accordo - il tempo esisteva - ma da che c'ero io si era evidentemente fermato.
Il mio universo appariva così eterno da potermi rassegnare all'idea che il tempo da qualche parte fosse esistito, ma senza esagerare.

Il secondo passo per capire che il tempo esisteva fu la morte e come da bambina fissavo la luce del Sole dietro alla finestra sperando in un cambiamento con la rassicurante consapevolezza che non sarebbe mai avvenuto, escogito fantasie in cui posso ritornare ad allora sapendo perfettamente che non potrà accadere mai.







Biglietto

Ai tuoi capelli neri
a quando cammini col naso per aria
alle volte che mentre ti parlo smetti di ascoltare
perché non è che interessi troppo a te;
A ogni tua risata, anche quelle brutte.
Alle tue espressioni che conosco
terribilmente bene.
Ai buchi che scavi sempre se te ne vai
a chi tratti con orribile disinteresse;
a quanto sei bambino
A quando resti assorto,
a tutto il vuoto che hai in fondo e per questo ci siamo noi

Brindo ogni bicchiere.
Grazie


domenica 10 febbraio 2013

Poi

"Vieni qui", dovevo dire.
"Vieni e resta, mangia, dormi, guarda dalla finestra, vestiti e svestiti e rivestiti ancora, esci e corri, cammina, poi torna qui.
Una, due o dodici volte.
Dimmi tutto quello che vuoi e anche quello che non vuoi, se puoi.
Prendimi in giro, non farlo o prendimi e basta e dormi un po' qua, cammina con me in un prato quando la luce è blu o in una strada solo se brulica di lampioni gialli e farfalle notturne, bevi un bicchiere e un altro ancora e spiegami cose che ancora non so".
Invece no.

venerdì 8 febbraio 2013

Pensando a loro

C. è un'immagine un po' persa tra la foschia e il sud Italia ma i ricordi che lo ospitano sono vivi e densi, mesi  su mesi riempiti da momenti di rabbia, odio, amore e adorazione.
Se trovassi le parole per raccontare la prima volta in cui ci siamo incontrati potrei non finire mai di scrivere, quindi le andrò a cercare con attenzione per vedere di non produrre un esagerato sproloquio senza senso, che di norma è la mia specialità.
Ma lo conoscevo già. Un pomeriggio, mentre su un bus tornavo a casa, ero incappata in un blog controverso scritto tanto bene da nemmeno riuscire a invidiarlo: rapita sfogliavo le sue pagine ridendo o cercando di capire complicati riferimenti e improvvisamente ero arrivata in stazione.
Gli scrissi una mail di apprezzamento: "Bravo - diceva più o meno - chi ti insulta non ascoltarlo perché non capisce niente".
Come se avesse bisogno che glielo dicessi io poi, che sciocca.
Lui, contrariamente a quanto poi mi spiegò faceva di solito, rispose.
- Se non lo fai mai, perché mi hai risposto?
- "Perché"
- Scusami?
- Tu scrivi "Perché" con l'accento giusto.
Era il 2008 ed è stata l'ultima volta in cui mi sono innamorata.



A. mi ha fatta penare così tanto che nemmeno riesco a mettere assieme i pezzi.
L'ho già scritto: nel tempo ho capito che sono capace di disinteressarmi completamente di tutto e tutti però quando succede di incontrare qualcuno che mi accende, perdo completamente il controllo e compare un malsano entusiasmo che non mi appartiene; lui invece è assolutamente imperturbabile sempre, gli serve tempo per lasciarti entrare.
Una tanica di benzina unita a fiamma libera e il diesel di un'auto di tanto tempo fa, che disastro, povero A.
Ma il suo essere muro di gomma mi ha insegnato più di tutti i discorsi del mondo: A. è un esempio, è un amico, è una persona che amo come si ama qualcuno che fa parte di te.
A. non fa pesare niente, non rinfaccia, a volte pare pure che nemmeno ti consideri ma non ha importanza: lui screma e di te tiene solo le parti che tu vuoi dare, che lui preferisce, mentre le altre le osserva e si fa un'opinione tenuta per sé.
Il mio compagno di bevute preferito, per me l'uomo più bello del mondo e il solo pensiero mi trasforma in un petulante Nonna Papera che passerebbe le giornate a tessere le lodi del nipotino con le vicine e nessuno reggerebbe il confronto perché quando A. è felice, lo sono anche io.
Lo avevo conosciuto fuori da un esame una vita di anni fa, nel circolo di persone lui non lo conoscevo dunque ci presentiamo: "Piacere, sai che somigli al cattivo di Heroes?".
Nemmeno mi guarda e a naso in aria si gira e se ne va.
L'ho incontrato di nuovo cinque anni dopo: tornata all'università, una sera esco con una vecchia amica e mentre in ritardo cammino lungo la via dalla quale già distinguevo il bar in angolo dove ci eravamo date appuntamento, vedo che lei parla con lui.
"No - penso - no non quello là".


J. ho quasi paura di rivederla, perché al suo sguardo attento poche cose fuggono.
Ora è in viaggio e tornerà presto.
L'ho conosciuta una sera di un anno fa: festa di compleanno a sorpresa per A., tutti in camera dei due coinquilini aspettando che lui tornasse, per saltare fuori inaspettatamente (esattamente come l'anno prima).
Ora, questi due ragazzi stridevano in modo allucinante a confronto con l'altro: E., bruttino e balbuziente, troppo insicuro, G. alto, magrissimo ed effeminato, molto molesto da bevuto.
Nella loro stanza, appesi alle pareti, foto di donne.
Primi piani.
Nemmeno a spalle scoperte, zero tette, zero culi.
- G., siete veramente così rintronati che non avete capito che non sono queste le parti di donna da appendere in foto al muro?
Non avevo mai parlato con J., mi fissa un momento stranita, ride e dice
- Ehi ehi ehi ma qui c'è del veleno! Dovremmo andare a pranzo insieme.
Nonostante l'avessi già capito che fosse una persona interessante, all'atto pratico è stata J. a scegliermi, perché lei fa così: decide, gestisce, pensa, si aspetta, pretende e dà per scontato, il che con me ha comportato qualche problema ma tra una bottiglia e fiumi di acidità ci siamo trovate e nemmeno lei è una persona a cui vorrei dover rinunciare.
Il meglio lo abbiamo dato fumando erba in balcone.


M. non è fatto per restare.
Forse nemmeno sarebbe comparso insieme a questi tre nella mia testa non fosse che da molto tempo non mi capitava di incontrare qualcuno di interessante. Forse volevo solo sgranchirmi i pensieri, però lo credevo  simpatico e basta, tutt'al più bello e con i belli che sembrano finti non ho mai avuto molto a che spartire.
Non mi aspettavo che scuotesse la mia testa, forse l'ho sempre sottovalutato (cosa che tende a incoraggiare tra l'altro).
"A volte forse ti sopravvaluto, altre volte ti sottovaluto decisamente sai", gli ho detto mesi fa.
Mi ha risposto "Sono contento".
Forse a M. nemmeno penserei più, non fosse che c'è ancora senza mai esserci stato: da che l'ho conosciuto ci siamo visti pochissime volte, a fasi alterne sentiti tanto e pur non volendo nulla di particolare da lui all'inizio, si sono succeduti momenti di assurdità completa in cui perdevo la testa e mi arrabbiavo per cose che non capivo, subendo una sbrodolata di emozioni francamente sproporzionata rispetto alla (scarsa) quantità di rapporto esistente.
D'accordo, non so bene come anche con lui mi ero accesa, la cosa che continuo a non capire è come mai, nei miei momenti di confusione e sproloqui strani, lui mi stesse dietro a ruota.
Anche lui un finto chiaccherone, schivo, le poche cose che so o ipotizzo le ho trovate sparse nei momenti in cui l'ho fatto innervosire e mi ha dato l'impressione di avere addosso troppo peso per volersene portare altro, braccia e spalle occupate di bagagli già pieni.
C'erano cose che avrei voluto dirgli, quasi tutte gentili, ma penso che mi stia passando e che non importi più.






martedì 5 febbraio 2013

I sogni da dentro

Ogni bolla ha le proprie regole.
La prima cosa che per me era diventata ingestibile è il sonno: ore e ore di torpore immobile e appiccicoso che risucchiava completamente alternato a notti in bianco, interi giri di orologio attraversati senza chiudere occhio.

L'insonnia di per sé non comportava grossi problemi perché lo stato di prostrazione non dipendeva da lei, l'ipersonnia invece era una palude densa di sogni che non volevo fare, tinti di atmosfere cupe e piatte apparentemente immobili ma popolate di antagonisti invisibili dalle vocette ridicole che sbucavano inquietanti quando meno me lo aspettavo, portandomi via chi era con me.
A volte da bambina non riuscivo a distinguere i sogni dalla realtà, ero molto piccola e davvero terrorizzata.

Non serve uno psicologo per aiutarmi a interpretarli, lo so da me che il problema è accettare che le persone se ne vadano, chi per forza, chi per scelta, chi per caso e ogni volta è un dolore diverso.

Nei miei sogni ci sono più spesso quelle che se ne sono andate per scelta, vengono a prendermi in giro.
Quelle che sono morte invece passano per darmi un seguito, la mia mente non accetta che siano scomparse e usa la notte per incontrarle ancora. A volte è un sollievo, a volte è peggio.

In fondo il motivo che mi ha messa dentro a una bolla è proprio la gente che se ne va. Sì, c'è stato un evento scatenante e lo ricordo bene: il crollo di un muro sottile che dietro nascondeva pile e pile di rottami e mi son caduti addosso, senza più nulla a trattenerli.
Erano speranze arrugginite, dolori messi da parte per finire di affrontarli più tardi, delusioni che non riuscivo a consumare, frustrazioni che non ce la facevo a portarmi sulle spalle perché pesavano troppo, buchi lasciati da così tante partenze.

Una delle cose che mi ha fatta stare meglio è stata imparare a riconoscere i sogni dall'interno e anche se non mi riesce sempre, spesso mi accorgo che qualcosa non torna, che no non può essere vero; un po' ci rifletto e allora mi sveglio.

Poi, ogni tanto, qualcuno mi salva.





domenica 3 febbraio 2013

Se posso ancora

Se posso guardarti, tra il tempo e il salotto, alta e diritta in cucina a preparare frittelle di riso

se riesco vederti indietro nel giardino, chinata a badare tartarughe e fiori

se sento ancora il gusto del gelato, sempre fiordilatte, che mi compravi nei pomeriggi d'estate

l'odore dei tuoi capelli

la stretta delle tue mani grandi

la carezza dei tuoi occhi quando ridevi.

Se sono passati anni senza cancellare i pomeriggi sedute al tuo tavolo

le favole sul divano

le parole crociate

il fumo sottile delle tue sigarette

le serate sedute per strada

il tuo cognome che facevo finta fosse anche il mio

la tua eterna cura.

Se posso averti così, ancora con me.

Che cosa ci ha fatto in fondo la morte?






venerdì 1 febbraio 2013

Riguardando la mia via 3

Ogni volta che ripenso alla mia via, nella mente si compone un quadro preciso: per prime i ricordi tracciano le linee delle abitazioni, poi i bordi delle auto parcheggiate, in ultimo il brulichio delle persone e il disegno si anima e colora.

Abitavamo quasi alla fine della strada, verso il giardino pubblico e la giornata era concentrata tra il gruppetto delle case immediatamente vicine. Spostandosi in direzione della piazza, si diluivano per me le occasioni di passaggio.
Più tardi l'avrei percorsa ogni giorno per commissioni, fughe e passeggiate di continuo senza pensarci tanto sopra.

Mi impressiona ancora il numero di persone con cui quotidianamente avevo a che fare: tra il forno e gli ingressi di case e palazzi, i giardini e il marciapiede.
E impressionante era che tutti fossero collegati tra loro a doppi o tripli fili con parentele di sangue, matrimoni, tradimenti, truffe e complotti.

Ero troppo piccola per capire bene quanto fitto fosse il tessuto intricato su cui tutti camminavamo, non ho ricordi a riguardo, solo considerazioni del poi.
Le donne parlavano tra loro di tutto questo, quando si riunivano nei pomeriggi in cui si facevano i tortellini.

Il forno dietro la bottega era una grande stanza dove per criterio di funzionalità si trovavano disposti con ordine curiosi macchinari, lungo il lato della porta verso il negozio, sul lato sinistro, un paio al centro.
Non li ho visti molte volte in azione perché venivano accesi soprattutto di notte dal nonno e dai suoi operai e forse per questo mi ha sempre stupito come infilandoci pezzi di pasta lievitata uscissero inaspettatamente coppiette e barillini, rosette e altre immagini di cui non ricordo i nomi, pane dalla forma troppo articolata perché il suo plasmarsi non fosse un affascinante mistero.
A destra c'era la grande spianatoia di marmo grigio, in fondo il forno vero e proprio e dietro ancora un altro paio di ambienti separati da tende, dove si friggevano nello strutto i bomboloni o si preparavano impasti dolci.

In quei giorni, dopo le quattro del pomeriggio mia nonna e la Rina si mettevano a turno a tirare la sfoglia sul lato destro della spianatoia, la passavano a sinistra dove l'altra tagliava tutta la superficie gialla e porosa in quadratini e noi come mosche arrivavamo ad affaccendarci sopra.
Il gesto atletico di lavorare quella quantità di pasta non va sottovalutato: era un procedimento faticoso, l'impasto era molto, pesante e i gesti per tirarlo ampi e impegnativi, con tutto un loro ritmo; mi è sempre piaciuto tanto, stare a guardare.

"Andiamo a lavarci le mani" mi diceva qualcuno, poi con le dita ancora umidicce, mettevo in ogni quadratino un po' di ripieno, o già farciti li piegavo per farne piccoli triangoli.
I triangoli poi si passavano alla nonna che con un gioco di dita che non so riprodurre allo stesso modo, dava loro la forma finale.
La bisnonna faceva da sé, china su un tavolo a parte per non mescolarsi troppo alle due sfogline, alleate e amiche da sempre, così io passavo un po' di tempo accanto a loro e un po' di tempo accanto a lei, trotterellando da una parte all'altra per rifornirla costantemente di tortellini da chiudere.
Mia madre stava in bottega, la zia maggiore quando il lavoro di maestra lo permetteva dava una mano dove serviva, la zia più giovane frequentava il liceo in una città vicina e lavoricchiava in piazza presso un negozio d'abbigliamento. Era una delle belle del paese - secondo tanti la più bella - e spesso compariva anche lei, perché secondo mia nonna, che si avessero cose da  fare o meno, una parte di tempo comunque la si doveva tributare alla casa.

Così, attorno a quel gruppetto, con vassoi e mattarelli, passavano insieme tutte le verità del mondo.

giovedì 31 gennaio 2013

Riguardando la mia via 2

Orso era un pastore belga.
Nero, aggraziato, discreto.
A me faceva un po' paura, non perché fosse un cane meno che adorabile, non so. Suppongo di non essere mai stata di quelle persone che prendono con gli animali tanta confidenza da infilar loro mani in bocca e cose del genere, ma lo amavo davvero.

La leggenda domestica narra che il prozio, Roberto: fratello del mio nonno paterno, lo trovò piccolissimo a lato di un fosso, lo portò a casa e con l'entusiasta complicità di una delle sue nipoti (una mia zia) all'epoca credo undici o dodicenne, nascose il cagnetto sotto al letto.
Fino a che non iniziò ad abbaiare e tutta la casa si accorse della sua presenza; immagino un momento di subbuglio generale che mi dispiace veramente essermi persa.
Ma nemmeno la bisnonna e la nonna, rispettivamente madre e cognata di Roberto e grandi antagoniste di tutto ciò che poteva essere disordine, ebbero il cuore di mandare via un cucciolo, ormai abituato a vivere lì.
Il che francamente ancora mi stupisce.

Erano entrambe donne dalla personalità più che dominante, imperativa. Nei miei ricordi le chiamo tutte e due "Nonna" contemporaneamente e sapevano sempre a chi mi stessi rivolgendo, perché le mie nonne sapevano tutto.
Il loro cammino si era incrociato quando il nonno, ancora ragazzino, si era innamorato di "Tizzi", o "to nona, quala là" come la chiamava la suocera. Temo che nessuna delle due fosse troppo entusiasta dell'altra e temo che sia poco chiamarlo "eufemismo".
Si erano trovate a coabitare in uno spazio ristretto: stessa casa, stessa attività, stessi parenti, il che aveva alimentato un livello di competitività per il quale non trovo similitudini.
Quando una delle due sentenziava su qualche argomento, l'altra - sguardo fisso sui propri affari, espressione vacua e silenziosamente perplessa - alzava spalle, sopracciglia e mostrava disappunto passivo che era ogni volta una pugnalata: disaccordo e calibrato disinteresse, espressione di sufficienza che rimaneva dipinta sul viso per numerosi minuti e a volte ore, in mezzo alla famiglia e a qualche lavorante tutti riuniti in forno, che assistevano al confronto e osservavano la vittoria, sempre di chi delle due riusciva a far vacillare la sicurezza dell'altra, tremare la posa del suo viso.

In casa mia lo sprezzo per chi non si rispetta non è mai stato mascherato. Incoraggiato, piuttosto.
All'epoca dei miei ricordi le forze si equilibravano bene ma credo che nonna, arrivata ventenne in casa del marito, abbia dovuto faticosamente apprendere come gestire simili dinamiche prima di poter competere con la suocera e credo abbia imparato dalla migliore.

Orso, incredibilmente, mise d'accordo tutti.

Quando arrivai lui aveva dieci anni e nessuna intenzione di dare il proprio consenso, come membro ormai storico della famiglia, al mio ingresso in casa.
Abbaiava, latrava, mostrava ostilità nei miei confronti e se esiste anche per i cuccioli di uomo una sorta di imprinting forse non è tanto strano che nel pezzo di vita che abbiamo condiviso io abbia sempre mantenuto un certo contegno, senza mai infastidirlo.

Un pomeriggio qualcuno appoggiò a terra la cesta di vimini nella quale mi portavano in giro e si distrasse.
Quando l'irresponsabile adulto che mi aveva in custodia in quel momento si girò, nessun rumore lo aveva avvertito ma la scena mostrava come il cane avesse fulmineamente appoggiato le zampe anteriori sul bordo della cesta, invadendola completamente per masticare, non si poteva distinguere cosa.
Momento di panico, poi di nuovo quiete: il ciuccio.
Orso mi aveva sfilato dalla bocca e si era messo a masticare il mio ciuccio.
Avrà pensato che d'accordo, forse era il caso di abituarsi alla presenza di quella cosetta che tutti parevano volersi spupazzare ma che i giochi di plastica dovevano rimanere per sempre una sua esclusiva.

Così iniziò un'alleanza: mi era permesso rimanere, a patto che fossi sotto la sua diretta supervisione, senza andarmene mai.

Sapeva quando era il momento di entrare in forno - tra la fine del lavoro di giornata e le pulizie - non tanto per questioni igieniche quanto per non essere d'impiccio a chi stava lavorando.
Sapeva attraversare la strada: a quattro anni potevo andare sola con lui al giardino dietro l'angolo sicura che non sarei stata investita, né importunata da estranei perché avrebbe abbaiato e il piccolo giardino pubblico era un rettangolo cui uno dei lati lunghi dava su una fila di case e botteghe dalle quali entravo e uscivo liberamente: ero guardata a vista, ma anche non fosse stato, lui bastava.
Faceva il bagno nella stessa vasca che avevo usato io, di plastica gialla e non sono sicura l'avessero comprata per me poi girata a lui come usato di lusso, più probabilmente era il contrario.

Orso camminava con me e non si allontanava mai.
Ero piccola, ma senza sforzo lo penso e lo vedo ancora: una bestia nera seduta pacifica di fianco a me nell'erba, allertato dalla presenza di uno sconosciuto passante, corso via a qualche metro e subito tornato perché ogni tanto doveva pur sgranchirsi anche lui. Con un pelo nero e bellissimo che io, quando sognavo di essere un cane, lo desideravo proprio identico.
Più di tutto lo rivedo riverso a terra nell'androne di casa, a lato della scala pochi anni dopo, posato sulle piastrelle grossolane di colori spenti.
Aveva sedici anni, il ventre scosso da un respiro affannoso e aveva badato bene di non essere nei piedi a nessuno nemmeno per morire.






mercoledì 30 gennaio 2013

Riguardando la mia via

Visti da qui i miei ricordi di bambina sembrano appartenere a un passato immaginario, popolato da personaggi fantastici.

C'era Il Dottore della Posta: un vecchio assicuratore austero, dal naso aquilino con la vetrina dell'ufficio di fronte a quella della bottega della mia famiglia. Mi lasciava usare le sue macchine da scrivere e aveva un'automobile rossa e alta, tipo mini jeep.
La vetrina di fianco ospitava Elda, con la sua pedicure. Era di mezza età, bionda, curata e mi metteva lo smalto trasparente con fare clandestino, per illudermi giocando di aver audacemente trasgredito: la mia famiglia era inflessibile sul decoro e le bambine non dovevano colorare le unghie o avere le orecchie forate. Quando attraversavo di nuovo la strada verso la mia porta, mia nonna fingeva di essere scandalizzata di fronte alla ribellione, la Rina rideva e continuava a tirare sfoglie.
Avevamo un forno.
C'era Il Papà di Orazio, custode dell'istituito professionale a pochi passi di distanza nel marciapiede di fronte, Orazio era il suo cane, lo portava sempre appresso. Nel cortile dell'edificio cresceva, ogni anno precoce, l'uva fragola. Ce ne regalava qualche cassetta all'inizio di ogni autunno ed era basso, tondino, pelato e con gli occhiali.
Nella mia vecchia via, con un solo senso di marcia e un lato su cui poter parcheggiare, le case sono tutte adiacenti, alcune anonime palazzine, altre abitazioni di prima della guerra con grandi cortili interni, che si sono trovate a dover convivere - immagino con un certo disappunto - con questa robaccia dei decenni successivi.

Nella palazzina di fronte, all'ultimo piano della scala A abitava Ally con i suoi genitori, Fiore e Mare, nel loro caso il nome italiano era la diretta traduzione di quello vietnamita, credo.
Stavo spesso con lei, giocavamo, ci travestivamo con quegli abiti sintetici a balze dai colori pastello che riportava dai suoi viaggi  di visita ai parenti sparsi in giro per l'Italia o in America. Se ho capito bene, i suoi genitori ancora bambini fuggirono dalla guerra del Vietnam, non mi hanno mai parlato di questo.

Al piano di sotto abitava una donna di cui non sono sicura di ricordare il nome, forse Mara, con una madre anzianissima che stava quasi tutto il giorno affacciata alla finestra del bagno.
Una vecchietta esile, dai capelli corti e bianchi che non credo di aver mai sentito parlare.
La sua casa era strana, con tanti gatti a pelo lungo e la stanza di Mara era simile a quelle che si vedevano nei fotoromanzi anni '80: mobili bianchi smaltati, specchi e grandi foto di lei da più giovane. A quel tempo stava avvicinandosi ormai alla quarantina ma sembrava già vivesse di glorie e bellezza del passato. Aveva un caschetto nero e l'espressione arrabbiata.
Ogni tanto regalava a me e a Ally vestiti che non usava più, una volta voleva darmi un gattino ma i miei non mi permisero di accettarlo. Comunque avevamo già un cane: Orso. Il mio Orso.

Spiegazioni e propositi

Per molti anni mi sono chiesta perché fossi ancora viva.
Respiravo, dormivo, vegetavo, ogni tanto combinavo qualcosa ma poco, fissavo moltissimo i muri e covavo un vuoto talmente sterminato nella testa che a ripensarci fa ancora paura.
Niente aveva un senso, tutto era "ottusa illusione", possibile che gli altri non capissero come lo stare al mondo fosse una cosa completamente inutile, vana, senza finalità?
Allora perché farlo?
Perché non lasciarsi morire?
Perché dover rimanere in mezzo a tutte queste persone con risate, sentimenti, pianti, obiettivi, io. Io, che non sentivo più niente.

Lo so che i blog sono una specie in estinzione, ma anche il passato è cosa estinta, quindi non ho saputo pensare a un luogo migliore in cui raccontare.

Perché in questi ultimi anni, dove il senso di vuoto totale se n'è andato per lasciarsi occupare da una rassegnata abulia, ho incontrato persone che - raramente - hanno saputo risvegliare qualcosa in me.

L'hanno chiamata depressione, tristezza, stupidaggine. Non so, so che per tanto tempo mi è sembrato di stare col naso piantato su un grande muro bianco e impalpabile, che ostruiva la vista di qualunque altra cosa ed ero così vicina da non saper distinguere cosa ci fosse attorno o a quale edificio potesse appartenere.

Ora che ho deciso che raccontarmi potrebbe essere la cosa migliore, mi vengono in mente ricordi mescolati, fatti e persone, momenti di prima di stare male, momenti dopo.
Sono riuscita a prendere un po' di spazio da quel muro, adesso la prospettiva è molto diversa e capita mi regali scorci della stessa realtà di chi non si è mai trovato nella stessa situazione.

A oggi non ho molti sentimenti. Non sento quasi mai affetto, rabbia, contentezza o gioia, figuriamoci felicità.
Quando qualcosa va storto e dovrebbe provocarmi dolore, anziché sentirlo nella testa avverto una fitta nell'addome, che dopo poco passa. E tutto si ferma lì.

Dicevo, ci sono alcune persone invece che, inaspettatamente, risvegliano in me sentimenti.
In questi anni sono state poche, le conto sulle dita di una mano, ma penso siano state loro a cambiare il mio modo di sentire.

Ieri sera le pensavo tutte insieme e cercavo in loro caratteristiche comuni per capire come mai abbiano potuto avere questo effetto su di me.
Allora ho sfogliato momenti passati, chiaccherate, frustrazioni e situazioni a ritroso fino alla volta in cui ho conosciuto ognuno.

J., minuta con lunghi capelli lisci castani e occhiali piuttosto brutti, intransigente e sempre vagante.
A., l'uomo per me più bello del mondo che quando è teso e ride fa una faccia tanto brutta che ti chiedi come sia possibile.
Scavando più indietro C., indescrivibile e schiacciante, per lui non basterebbe un libro intero.

In ultimo, M.
Bellissimo, conosciuto in una serata strana di maggio scorso, lui che pensavo fosse diverso, che immaginavo semplice e per niente interessante, che avevo sperato fosse insulso e leggero, da poter frequentare per un po' ed avere un momento di tregua dall'ambiente tanto impegnativo che mi ero costruita attorno.
Inutile dirlo: si è rivelato il più complicato di tutti.
Ma su di me non ha avuto l'effetto devastante di C., o l'ossessivo desiderio di vicinanza provocato da A., né il senso di allerta che mi dava J.

M. è diverso.
Se n'è fregato delle mie paturnie, ha imposto il suo modo di gestire i rapporti, sia a distanza che di persona, ha piantato paletti molto chiari senza bisogno di parole, non mi ha lasciata - una volta che fosse una - fare di testa mia con lui.
Così la mia considerazione nei suoi confronti è cresciuta nonostante tutto: nonostante il suo leggere a volte Baricco, nonostante il mostrare noia evidente in alcuni momenti mentre chiaccheravamo, nonostante il non esserci, nonostante il non potergli essere utile, nonostante il non trovarmi poi così interessante.
Va da sé, non mi va bene niente di tutto questo e non so comportarmi normalmente quando ci ho a che fare.
Un po' mi spiace essere riuscita così di rado a essere me stessa, con lui.

Ma a M. devo l'avermi fatto venire voglia di raccontare.
Di spiegare, di uscire.
Mi ha fatta stancare delle soffocanti ma sicure dinamiche che mi ero creata per vivere nel nulla, ha quasi rotto il mio giocattolo tossico. Mi ha fatta arrabbiare.

Presumo di dovergli essere grata per questo.

Insomma, ho cercato in queste persone, qualcosa che mi spiegasse come mai io le abbia trovate tanto interessanti da principio, come mai la mia testa e il mio corpo abbiano reagito proprio a loro.
E mi sono data una risposta vaga, credo giusta: hanno un modo di guardare ciò che provoca dolore, terribilmente spaventato. Non so raccontare l'espressione degli occhi, la tensione delle guance, il rapidissimo cambiamento di aspetto dei loro visi tra un pensiero felice e uno cattivo, ma lo fanno in un modo che rimarrei a guardare per sempre.
Hanno la faccia di chi sa cos'ha davanti, e tutti sanno reagire, non come me.

Mi pare quasi che conoscano il posto in cui sono stata, che parlino la mia lingua ma ne sappiano anche altre.

Il fatto che siano persone così rare ha causato non pochi problemi.
Non dico al mio equilibrio, perché tanto non lo avevo, ma è stata dura.
Perché le emozioni sono un bel problema, quando non si è abituati: non le controlli, ti investono, esondano, trasudano da ogni poro della tua pelle e ti ricoprono come miele e formiche, non puoi lavarle via, più ci provi più ti ricoprono.
E anche se da un lato provocano disagi, dall'altro è impossibile rinunciare perché non è cioccolata: è sentirsi vivi.
Quando ti succede tanto raramente, sentirsi vivi è una cosa che da un lato si detesta, dall'altro è come annegare il pensare di dovervi rinunciare ancora.

Adesso mi piacerebbe tirare le fila.
Da dove tutto è iniziato, più di venticinque anni fa.